venerdì 15 ottobre 2010

Novità: PLETTRI NELLE MANI DI DIO

Sui Beatles, uno dei maggiori fenomeni del XX secolo — non solo musicali ma sociali nell’accezione più ampia del termine — sembra sia stato detto e scritto ormai tutto. Eppure libri sul quartetto di Liverpool continuano a essere sfornati, a tutte le latitudini e in tutte le lingue.
Cosa si propongono, nel loro, Andrea Barghi e Maurizio Grasso? Non è giusto pretendere una summa critica o una minuziosa biografia. E neppure l’ennesima, definitiva Verità sull’argomento decisa a fare giustizia di tutte le precedenti. Ciononostante, per la sua natura “rapsodica”, quest’opera risulta fin da subito estremamente accattivante.
Traspare netto l’intento di evitare le insidie di un approccio troppo rigoroso e sistematico, di privilegiare un accostamento al tema Beatles per così dire “tangente”, non per questo meno competente e appassionato, che guida il lettore nel complesso mondo Beatles grazie a una sequenza di spaccati, di scorci inusuali, di sapide riflessioni. Restano, nell’apparente casualità dei temi proposti, due filoni su cui gli Autori tornano costantemente: l’imprinting musicale e sociale enormi dei Fab Four.
Concepito come una serie di capitoletti tematici, Plettri nelle mani di Dio si può leggere di fila come un saggio o un romanzo, ma anche no. È altrettanto se non più congeniale spigolarlo qua e là, con la curiosità con cui si sfoglia un dizionario, decidendo sul momento il percorso. Una lettura che non delude e offre molti spunti di riflessione.



Andrea Barghi e Maurizio Grasso
PLETTRI NELLE MANI DI DIO
Improvvisi a quattro mani sul tema
The Beatles

Presentazione di Italo Inglese
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-200-3]
Pagg. 168 - € 12,00

mercoledì 13 ottobre 2010

Scrjabin e Kandinsky: un percorso verso un’arte “totale” e “unica”

Eclettismo e sperimentazione hanno preso il sopravvento su obiettivi nobili quali progresso spirituale e perfezione



In un libro sui Beatles d’imminente pubblicazione (A. Barghi, M. Grasso, Plettri nelle mani di Dio, Tabula fati), le canzoni del quartetto di Liverpool sono assimilate a “dipinti sonori” e ricondotte ad un “sincretismo musicale” che fonde elementi eterogenei.
Tale commistione di generi e forme non è nata con i Beatles, ma affonda le proprie radici in epoche ben più risalenti nel tempo. Al riguardo, è significativo l’esempio di Alexander Scrjabin e Wassily Kandinsky i quali, agli inizi del secolo scorso, mossi dal desiderio di ampliare le proprie esperienze oltre i limiti dei rispettivi campi artistici, tentarono di realizzare un nuovo ordine spirituale ed un’arte concentrata sull’interiorità dell’artista, anziché sul mondo oggettivo. L’obiettivo era, per Scrjabin, di far luce con i suoni negli abissi dello spirito e, per Kandinsky, di rendere visibile l’invisibile, sviluppando la ricerca, avviata dalla pittura simbolista e dalla musica di Debussy, volta ad attingere l’essenza segreta delle cose e a scoprire le corrispondenze misteriose fra la natura e l’immaginazione.
Skrjabin e Kandinsky vagheggiavano una nuova forma d’arte totale che facesse crollare i muri divisori, individuasse un denominatore comune e pervenisse ad un’arte unica, fatta di elementi sonori, visivi e plastici (musica, poesia, teatro, danza), cioè alla fusione di tutte le arti in una sintesi superiore (Gesamtkunstwerk). Questa tendenza, che aveva già avuto un interprete in Wagner - il quale, guardando indietro all’antica tragedia greca, rivitalizzò la correlazione espressiva di parola e musica - troverà adepti tra i futuristi russi e italiani. Nella Costituzione di Fiume, occupata nel 1919 da un manipolo eterogeneo di volontari, tra cui numerosi futuristi, sotto il comando di Gabriele D’Annunzio, si legge che la musica è il principio centrale dello Stato.
Nel percorso per la costruzione dell’arte totale, intrapreso da Scrjabin e Kandinsky, la musica occupa un ruolo preminente. In contrasto con l’opinione di Gauguin, secondo cui la pittura è la più espressiva delle arti in quanto «capace di un’unità negata alla musica», Scrjabin e Kandinsky affermano il primato della musica sulle altre arti in coerenza con la corrente di pensiero ad avviso della quale solo la musica può raggiungere il territorio dell’ “indicibile”, inaccessibile alla parola, e può stabilire un intimo rapporto con la vera essenza di tutte le cose. In tale prospettiva, la musica assume la funzione di paradigma al quale le altre arti devono tendere. Kandinsky afferma infatti che l’artista che non voglia limitarsi all’imitazione della natura ma voglia essere un creatore ed esprimere il suo mondo interiore si volge necessariamente alla musica, l’arte più immateriale. Lo stesso Gauguin, pur rivendicando il primato della pittura, dichiara che l’artista «deve cercare più la suggestione che la descrizione, come del resto accade in musica». Questa esigenza induce la pittura a trasferirsi in un’altra sfera, cioè nella dimensione dell’arte astratta. In questo cammino dell’arte verso una dimensione più spirituale, assume fondamentale importanza il rapporto tra suono e colore, rapporto del quale esisteva consapevolezza già nell’antichità. Basti notare, in proposito, che il termine Raga, utilizzato per designare le antiche melodie indiane tramandatesi fino ai giorni nostri, significa “colore”, “passione”.
Corrispondenze tra suono e colore sono formulate da numerosi poeti, artisti, musicisti: Mallarmé, in una sua famosa poesia, evoca l’azzurro trionfante «che canta nelle campane, anima che si fa voce»; Rimbaud stabilisce una concordanza tra vocali e colori; Gauguin sostiene che i rapporti di tono in pittura si equivalgono ad accordo e armonia in musica e che tale equivalenza giustifica l’espressione “partitura musicale del quadro”; Kandinsky assimila l’arancione alla voce di una soprano e al largo musicale di una viola; Carrà, nel manifesto La pittura dei suoni, rumori, odori (1913), teorizza la resa plastica del rumore attraverso linee, volumi e colori; il futurista Luigi Russolo intitola un suo quadro “La musica”; Aaron Copeland afferma che il timbro della musica è analogo al colore della pittura.
In una recente biografia di Glenn Gould, la musicologa Katie Hafner racconta che il leggendario pianista canadese dedicò l’intera esistenza, senza mai trovare piena soddisfazione, alla ricerca di uno strumento che producesse particolari “vibrazioni di colore”. Hafner inoltre rileva che è diffuso tra i concertisti l’uso della parola “brillante” per descrivere il suono di un piano sul registro acuto, un suono simile al diamante, dagli spigoli duri e taglienti (Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, Torino 2008). Un tentativo di individuare scientificamente un’identità comune tra vibrazioni luminose e vibrazioni sonore fu compiuto da Isaac Newton, il quale, constatata la somiglianza tra lo spettro luminoso e la scala diatonica, lo divise in sette parti e stabilì corrispondenze teoriche tra colore e altezza dei suoni, su una base fisica.
Scrjabin, a sua volta, compila una tabella di concordanza tra elementi musicali e pittorici e prevede, per l’esecuzione del “Prometeo” o “Poema del fuoco”, l’uso di una macchina che proietta su uno schermo colori in corrispondenza a note o gruppi di note. Tuttavia, per il musicista russo, colori e suoni non costituiscono soltanto fenomeni fisici o estetici, ma simboli che racchiudono significati reconditi, e la fusione di suono e colore esalta tale simbolismo. Gli elementi di pittoricità presenti nella musica di Scrjabin sono finalizzati a produrre un particolare fenomeno sensoriale, denominato in inglese colourhearing (“ascoltare il colore”), mediante il quale si instaura una peculiare corrispondenza di vibrazioni tra creatore e fruitore dell’opera d’arte.
Questa concezione è evidentemente agli antipodi della cosiddetta “arte contemporanea”, in cui l’eclettismo e la sperimentazione fine a se stessa hanno preso il sopravvento sull’obiettivo di un progresso spirituale da compiere e di una perfezione da raggiungere.

Italo Inglese

Linea anno XIII numero 224

http://www.lineaquotidiano.net/node/14656