Purtroppo, come il mondo della comunicazione esige per ogni star internazionale, parlare di lei, non importa se per incensarla o denigrarla, è sempre un evento che arricchisce in notorietà, soldi e audience i primattori e le comparse della prostituzione mediatica.
Esente dal becero provincialismo delle faziosità di campanile che caratterizzano la parte più rozza del mondo del calcio, la Signora è continuamente oggetto di opposte attenzioni, di sentimenti forti e conflittuali, ora amorevolmente carezzevoli ora perfidamente graffianti, in ogni caso mai espressioni di noncuranza e impassibilità.
Nei suoi colori sociali c’è posto solo per il bianco e il nero, non per il grigio, colore spesso preferito invece dal popolino che, rintanato nell’ombra anonima del suo loggione, osa lanciare lazzi e sguaiataggini all’indirizzo del suo palco regale, insinuare gratuite maldicenze contro di lei e attentare impunemente al suo onore.
Senza dubbio nel determinare la sua diversità di classe e di ceto hanno un peso decisivo gli annali dorati della sua gloriosa storia ultracentenaria, la cavalcata trionfale dei suoi trenta scudetti, la sua perenne fame di vittorie, la regale signorilità e inesausta passione con cui un’invidiata dinastia familiare, irripetibile in Italia e nel mondo, l’ha allevata, educata e custodita.
Da non sottovalutare poi l’aristocrazia dei suoi natali.
Le sue avversarie e consorelle dello sport pallonaro sono nate popolane, chi tra i fumi di un’osteria, chi tra il vociare indistinto di un oratorio polveroso, chi tra gli schizzi delle pozzanghere di un campetto di periferia, nel migliore dei casi alla scrivania di un megalomane “padrone del vapore”.
Lei è nata, non per caso, per iniziativa di un gruppo di studenti liceali riuniti in elegante consesso su una panchina del corso più aristocratico della “regal Torino”, l’ex capitale d’Italia. E non è differenza da poco.
Forse, però, neanche questo DNA pur socialmente discriminatorio basta a spiegare la genesi di sentimenti in così lacerante contrapposizione fra loro.
Il vero segreto di quest’enigma di consenso e rancore, di passione e malevolenza, di amore e odio si annida più in profondità, addirittura e inaspettatamente nel carico di splendore e responsabilità del suo nome, Gioventù.
E’ un nome speciale, presagio di significato e di senso assai impegnativi, capace di evocare l’audacia, il fascino, la bellezza, la leggenda della giovinezza, il mito che da sempre ha accompagnato l’uomo di ogni cultura nella sua esplosiva avventura adolescenziale, il tesoro affannosamente cercato in ogni tempo e in ogni contrada, l’inafferrabile fonte di gioia e sogno d’immortalità. Un intenso squarcio di vita troppo bello per essere odiato, ma troppo breve e sfuggente per essere a lungo amato senza nostalgia e risentimenti feroci.
Da una parte il tempo della giovinezza permette a chi lo vive di sognare, di staccarsi con spensieratezza dalla realtà, di gustare l’illusione di una vittoria senza fine sul tempo e sulle cose.
Dall’altra il mito della gioventù sfiorita, il passato povero ormai scivolato fra le dita solo come sabbia di una clessidra troppo frettolosa che va svuotandosi di grani, può ingenerare in chi lo ha perduto un bisogno di rivalsa, di vendetta, di odio.
Ritorna l’irrisolto conflitto esistenziale, fra il sogno di giovinezza e l’inesorabile acida resa alla vecchiaia, fra la perdurante voglia giovanile di vita di chi ama la giovinezza e l’angosciante struggimento di rivincita di chi invece la odia, come memoria da rimuovere di un bene a suo tempo scialato e ormai irrimediabilmente perduto.
Cara, impareggiabile Signora Gioventù, a te la passione e il delirante abbraccio di milioni di innamorati. A loro, i tuoi arcigni e frustrati detrattori, il macigno divorante dell’invidia e il lettino dello psicanalista.
Umberto Tozzini