mercoledì 5 novembre 2014

EPOCHE | Il pallone è smarrito (di Giancristiano Desiderio)

Quando Carl Schmitt va allo stadio è il titolo di un, ahimé, antico saggio di Gennaro Malgieri che, purtroppo, non ho e devo ricordarmi di chiederglielo. Mentre ho tra le maniIl pallone smarrito, edito da Tabula Fati, e lo giro e rigiro, vedo e rivedo, leggo e rileggo con – confesso a me stesso e al mio amico – piacere e sofferenza. Con piacere e gusto della lettura perché Malgieri scrive del declino del calcio di Neymar e Messi come del Tramonto dell’Occidente di Spengler tenendo insieme ipotesi di gioco e lezioni di vita. Con sofferenza e con quel sadismo che è tipico del dolore inflitto a se stessi perché in questo “taccuino calcistico”, nato sulle pagine elettroniche di formiche.net nel mese dell’ultimo Mondiale di calcio, è centrale quello che Malgieri chiama un “suicidio annunciato”: la fine drammatica del Brasile distrutto in diretta televisiva dalla “macchina tedesca” di una Germania implacabile.
La tesi del libro – che, va ricordato ancora perché ne va del valore della critica calcistica di Malgieri, è un testo che è stato scritto mentre il Mondiale era in corso – è che il Brasile ha perso perché non era più ormai da tempo il Brasile. “Il risultato di 7 a 1 per la Germania – nota Malgieri con rigore – non è neppure eccessivo, se si considera la caratura di una squadra vera, costruita nel corso del tempo per vincere senza sconti contro chiunque, a maggior ragione contro fragili e intimiditi giocatori a cui nessuno ha insegnato nel corso degli ultimi dieci, quindi anni il calcio brasiliano, che è una variante artistica della poesia, della letteratura, della geometria, dell’armonia applicate allegramente alla corsa con la palla al piede verso la gloria di gol inevitabili”. La fine di Belo Horizonte dà la mano all’inizio del Maracanà. Nel 1950 l’Uruguay di Obdulio Varela – il capitano della Celeste che pagò poi per tutta la vita quella inattesa vittoria – vinse su un grande Brasile che schierava in attacco Zizinho, Ademir, Jair, Chico e milioni di brasiliani piansero insieme come un solo bambino. Nel 2014 la Germania di Klose ha spazzato via un Brasile che era un fantasma e che aveva rinunciato già ad essere il Brasile. Della Seleçao era rimasto solo l’inganno della superbia e della presunzione che una volta colpito e scoperto ha mostrato l’umanissimo e fragilissimo infantilismo brasiliano. La differenza tra la sconfitta del Maracanà e la disfatta di Belo Horizonte sta nel dopo. Perché dopo venne il grande Pelè e un Brasile che giocava a calcio come si gioca solo in Paradiso (se in Paradiso si giocasse, ma sappiamo che lì – presso gli dèì – non si gioca perché il gioco è terreno e terrestre). Il giorno della sconfitta al Maracanà il piccolo Edson giocava a pallone nel vicolo di casa mentre il padre con i suoi amici guardava la partita in televisione. Il dramma ammutolì tutti. Anche il pallone di Edson smise di rotolare e il bambino, che in quel momento era il Brasile, vide suo padre piangere. La vittoria del 1958 in Svezia iniziò quel giorno perché Pelè imparò prima di tutto la grande lezione del gioco: se vuoi vincere accetta la sconfitta. Dopo la “catastrofe brasiliana” ad opera della “macchina tedesca” non si vede all’orizzonte alcun piccolo Edson. Se oggi “dio non è più brasiliano” è perché il calcio del Brasile non è in grado di trasformare la sconfitta in una presa di coscienza per rifondare nuovamente quella che era la particolarità del comunità calcistica brasiliana: il calcio danzato.
Qualche sera fa ho incontrato Italo Cucci e gli ho chiesto a bruciapelo: “Italo, dimmi in poche parole e con nettezza perché il Brasile ha fatto quella fine”. Mi ha guardato e mi ha chiesto: “Quanti giocatori della Nazionale brasiliana giocavano in Brasile?”. “Uno solo, mi pare”. “Sì, uno solo: Fred. Ecco perché il Brasile ha fatto quella fine: non c’erano brasiliani”. E’ questa la tesi anche di Malgieri: il calcio si è talmente universalizzato che ha finito per perdere le sue particolarità d’origine che erano la fonte del suo stesso gioco universale che, invece, è stato sostituito da una omologazione di base che rende tutto tristemente uniforme. Così mi ritorna in mente quanto scriveva qualche tempo fa Mario Sconcerti in un libro chiedendo a se stesso cosa sarebbe diventato il Brasile con l’unione della danza spontanea con il razionalismo tecnico moderno. Oggi abbiamo la risposta: la fine del Brasile. Io uno che si chiama Hulk o si fa chiamare Hulk non l’avrei fatto scendere in campo innanzitutto per il nome. Anche i nomi hanno la loro importanza. Vero Mané?
Le Nazionali di calcio sono destinate ad esprimere un calcio minore. Le grandi squadre di calcio sono oggi le squadre di club che sono il risultato di una miscela: soldi, atletica, giocatori. Una ricetta esportabile in cui la dimensione dell’appartenenza, della maglia, della tradizione conta molto poco se non nulla. La grande stagione delle squadre nazionali è stata interpretata dalla Coppa Rimet. Con la nascita del Mondiale inizia la fase della decadenza che oggi con il tramonto del Brasile tocca il suo punto più basso in una sorta di nichilismo calcistico. Il pallone è smarrito.

di Giancristiano Desiderio


sabato 25 ottobre 2014

Papa Francesco, il calcio e la globalizzazione (di Giuseppe Brienza)


Il pensiero conservatore di Gennaro Malgieri nel nuovo libro che solca sport, storia, politica e antropologia che è nato dai corsivi scritti dal saggista su Formiche.net durante gli ultimi mondiali di calcio
Prima dell’udienza generale di mercoledì scorso, Papa Francesco ha ricevuto in Vaticano la squadra di calcio tedesca del Bayern Monaco, all’indomani della partita di Champions league vinta all’Olimpico contro la Roma. Durante l’incontro, in un’auletta dell’aula Paolo VI, il presidente Karl Hopfner e il dirigente Karl-Heinz Rummenigge hanno regalato al Santo Padre un pallone con le firme di tutti i giocatori. Poi il capitano Philipp Lahm e il portiere Manuel Neuer gli hanno consegnato la maglia con il numero 1 e il nome “Franziskus”.
IL CALCIO-CARITA’ DEL BAYERN, CONTRO IL GLOBALISMO
Come ha riportato L’Osservatore Romano, il club calcistico bavarese «donerà al Pontefice un milione di euro, che verrà raccolto con una partita amichevole da giocare entro un anno. “Sarà Papa Francesco a decidere per quali scopi di carità per i poveri verrà utilizzata la somma” ha spiegato Rummenigge» (L’incontro del Papa con la squadra del Bayern Monaco, in L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2014, p. 6).
Come evidenziato da ultimo da queste parole del mitico centravanti tedesco, per molti anni “punta” dell’Inter, il Pontificato di Bergoglio non smette di stupire, conseguendo risultati “di civiltà” e fede anche in mondi ormai lontani anni luce dalla visione personalista cristiana. Le parole di Rummenigge e l’udienza del Bayern, assieme alle numerose precedenti di squadre e campioni internazionali in Vaticano, si possono infatti leggere in totale contro-tendenza rispetto alla “finanziarizzazione” del calcio senza volto (e identità) del XXI secolo.
LA CULTURA DELL’INCONTRO, DI CALCIO, VOLUTA DA BERGOGLIO
Poche settimane fa’, poi, cioè dal 1° al 4 settembre, si è tenuto anche in Vaticano il terzo congresso delle Scholas Occurrentes, cioè le “Scuole per l’incontro”, una rete mondiale di istituzioni educative nata su impulso di Papa Francesco. Questa rete, divenuta ormai un movimento internazionale, com’è spiegato in un articolo di Jorge Milia, che è stato alunno di Bergoglio quando questi insegnava Letteratura e Psicologia a Santa Fe negli anni 1964 e 1965, è basata «soprattutto sui pilastri dello sport». Contando oltre trecentomila scuole iscritte, appartenenti a una settantina di Paesi dell’America, dell’Europa e dell’Africa, il movimento delle Scholas Occurrentes, aggiunge il giornalista argentino nel suo articolo pubblicato sul sito internet di Alver Metalli «Terre d’America» e ripreso giovedì scorso dall’Osservatore Romano, ha promosso come uno dei momenti pricipali del congresso e l’incoraggiamento del Papa, «la partita di calcio interreligiosa per la pace organizzata allo stadio Olimpico di Roma alla quale hanno partecipato i grandi giocatori di ieri e di oggi» (Jorge Milia, Come parla Jorge Mario Bergoglio. Fate il futuro volando, in L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2014, p. 4).
PAPA FRANCESCO E LA “GEO-POLITICA” DEL CALCIO
Contro l’apice della degenerazione mondialista e spersonalizzante del calcio contemporaneo, la Chiesa di Bergoglio si pone dunque come argine. Nel nuovo libro di Gennaro Malgieri, politico, giornalista e prestigiosa firma di Formiche.net, “Il pallone smarrito. Dal Mondiale brasiliano, una nuova geopolitica calcistica” (Edizioni Tabula Fati, Chieti 2014, pp. 112, € 10), si spiega a tal proposito come, proprio l’ultimo Mondiale di calcio ha mostrato nel modo più chiaro come, la globalizzazione dell’indifferenza, per riprendere una formula spesso utilizzata dal Papa, ha manifestato tutti i suoi segni di corruzione anche del “movimento calcistico”. Diventando globalizzato, scrive infatti Malgieri, «il football ha smarrito le differenze che lo hanno caratterizzato per quasi cento anni. Uniformandosi, le scuole calcistiche tendono ad assimilare moduli e schemi tattici che neppure qualche raro fuoriclasse riesce più a contaminare con il proprio estro, per quanto non manchino volenterosi individualisti purtroppo piegati alle esigenze dei club trasformatisi da società sportive in aziende economico-finanziarie».
Il calcio, insomma, non sfugge alla logica mondialista. Quella stessa che, ha denunciato fin dall’inizio del suo Pontificato Bergoglio, «ci fa lentamente “abituare” alla sofferenza dell’altro, chiudendoci in noi stessi» (Messaggio di papa Francesco per la celebrazione della 47.ma Giornata della Pace, Città del Vaticano 12 dicembre 2013).
Il calcio, spiega Malgieri, si è appunto omologato nel modo di esprimersi e di proporsi. La Coppa del Mondo disputata in quella che una volta era la terra felice del futebol ha confermato la tendenza utilitarista a cui il calcio s’ispira da oltre vent’anni. Analizzando il Mondiale brasiliano, infatti, è possibile rilevare al massimo grado tutte le anomalie di una nuova geopolitica calcistica confusa, acefala, regolata da fattori extra-sportivi, chiusa all’identità comunitaria ed alla solidarietà.
L’autore di Conservatori europei del Novecento (casa editrice Pagine, Roma 2014), che ha diretto la rivista di cultura politica “Percorsi” ed i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”, con il suo nuovo lavoro individua quindi certe “linee-guida” del pensiero conservatore attuale sul fenomeno sportivo come dinamica sociale rivelativa dello sradicamento globalista. Attraverso l’analisi tecnica e socio-culturale dei fatti e delle partite del Mundial del Brasile del 2014, Malgieri ne propone infatti all’attenzione le “ricadute” sia sul fenomeno del calcio in senso stretto sia sulle dinamiche identitarie, sociali e nazionali, in gran parte rimosse dalla sociologia del “pensiero unico” e dal conformismo culturale imperante.
La globalizzazione, insomma, come ha magistralmente spiegato anche Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009), può al massimo rendere vicini, ma non rende affatto gli uomini del nuovo millennio fratelli. Figuriamoci sul campo rettangolare…
Giuseppe Brienza

lunedì 20 ottobre 2014

Novità: IL PALLONE SMARRITO di Gennaro Malgieri

Gennaro Malgieri
IL PALLONE SMARRITO
Dal Mondiale brasiliano una nuova geopolitica calcistica 
Edizioni Tabula fati



Il Mondiale brasiliano ha mostrato tutti i segni della decadenza del movimento calcistico. Diventando “globale”, il football ha smarrito le differenze che lo hanno caratterizzato per quasi cento anni.
Uniformandosi, le scuole calcistiche tendono ad assimilare moduli e schemi tattici che neppure qualche raro fuoriclasse riesce più a “contaminare” con il proprio estro, per quanto non manchino volenterosi individualisti purtroppo piegati alle esigenze dei club trasformatisi da società sportive in aziende economico-finanziarie.
Il calcio, insomma, non sfugge alla logica mondialista. È questo il motivo per cui si è omologato nel modo di esprimersi e di proporsi. La Coppa del Mondo disputata in quella che una volta era la terra felice del futebol ha confermato la tendenza “utilitarista” a cui il calcio s’ispira da oltre vent’anni.
Gennaro Malgieri, analizzando il Mondiale brasiliano, tratteggia le anomalie di una nuova geopolitica calcistica confusa, acefala, regolata da fattori extra-sportivi.


Gennaro Malgieri
IL PALLONE SMARRITO
Dal Mondiale brasiliano
una nuova geopolitica calcistica 
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-396-3]
Pagg. 112 - € 10,00

http://www.edizionitabulafati.it/ilpallonesmarrito.htm

mercoledì 17 luglio 2013

BOTTAI, ROSSIF E LULLI FRA LA STORIA VERA E LA STORIA NEL CINEMA

Conosco da molti anni Enzo Natta. Il suo cognome è rivelatore perché svela la sua origine di ligure di ponente (un suo omonimo, Alessandro, dalle stesse origini, è stato uno degli ultimi segretari del PCI. In dialetto, per quanto ne so io, il cognome significa “sughero”).  Per l’esattezza è di Imperia (non voglio specificare se di Porto Maurizio o di Oneglia per non ravvivare un’antica polemica nata dall’incomprensibile decisione del primo governo Mussolini di fondere insieme i due borghi, vicini ma divisi da un odio antichissimo e dall’eredità della storia). Da molti anni Enzo abita a Roma ove si è sempre occupato di critica cinematografica. È stato per molto tempo il titolare della rubrica per “Famiglia Cristiana”, fra i curatori della pagina sullo spettacolo dell’”Osservatore Romano”, Capo Ufficio Stampa di molti enti cinematografici, Capo Redattore della rivista del “Cinematografo”, eccetera. Ne faccio cenno qui perché da pochi mesi è uscito un suo libriccino (11 euro) presso un editore di Chieti che ha un nome curioso “Gruppo Editoriale Tabula Fati”. Il libro è intitolato “Ombre sul Sole” e reca il sottotitolo: “Storie di uomini-contro: Bottai, Lulli, Rossif”. Mi pare doveroso farne cenno perché è collocato al centro di un rapporto fondamentale che mi ha sempre incuriosito, quello della vita pubblica e politica e quello del cinema, e perché è mosso da uno stimolo quasi giallo, nell’evocare tre persone che pur non avendo nulla in comune erano invece uniti a legami da loro stessi ignoti.

Il primo è Giuseppe Bottai (3 settembre 1895-9 gennaio 1959), che rimane forse la personalità più curiosa e contraddittoria creata dal fascismo. Da un lato ne fu uno degli esponenti più noti: romano di famiglia fondamentalmente proletaria, poi giovane ufficiale nella prima guerra mondiale, quindi organizzatore a Roma di gruppi squadristi, infine, giunto il fascismo al governo, si trovò per vent'anni  al tempo stesso al centro ed alla periferia del potere: fra l’altro fu Ministro delle Corporazioni e Ministro (come si diceva allora) dell’Educazione Nazionale (si deve a lui l’introduzione della scuola media unica: lo so perché appartengo alla classe di età che nel 1940 l’esperimentò per prima). Uomo misteriosamente contradditorio, da un lato aderì senza riserve all’applicazione delle leggi razziali, sia nel Gran Consiglio del Fascismo che nella pratica quotidiana al Ministero. Dall’altro fu un raffinato umanista -si deve a lui la rivista “Primato” a cui collaborò il fior fiore delle lettere e del giornalismo d’Italia- e al tempo stesso un fascista impegnato ma sempre più critico; decisivo, insieme a Dino Grandi, ed in misura diversa insieme a Galeazzo Ciano, nella mozione anti-mussoliniana del Gran Consiglio del 25 Luglio 1943. Richiamato alle armi nella Seconda Guerra Mondiale per alcuni mesi in Grecia fu un eccellente Comandante di un Battaglione Alpini (credo il “Vicenza”). Nel 1944 ricercato dalle autorità della Repubblica Sociale Italiana, come la maggior parte di quelli che avevano votato con lui al Gran Consiglio, venne inizialmente salvato dal Vaticano, che lo fece ospitare in diversi Istituti religiosi, e poi decise di saltare il fosso, salvando da un lato la sua vita e dall’altro rimettendola in gioco, al fine di riscattarsi per le responsabilità che si assumeva “nella degenerazione finale del fascismo”. Si arruolò infatti nella Legione Straniera (con il nome di Andrea Battaglia e poi  con quello di André Jacquier), vi raggiunse via via il grado di Sergente e, nelle file del Reggimento di cavalleria della Legione, il I° R.E.C. (divenuto già allora un Reggimento blindato) nell’inverno 1944-45  combatté contro i tedeschi sino a quando i legionari arrivarono alla vittoria nel cuore stesso della Germania. Questa almeno è la versione ufficiale sin qui conosciuta. Ma Enzo è andato a scavare nel suo passato militare ed ha scoperto qualcosa di inatteso. Proprio in una delle istituzioni parallele ma decisive della Legione Straniera. Frédéric Rossif (è uno dei tre protagonisti del libro, ne riparleremo) ex legionario egli stesso, andò nel ricovero dei legionari anziani, aperto da anni nel sud della Francia, a Puyloubier, nei pressi di Aix- en Province, ricovero che si chiama “Centre Capitain Danjou”. Danjou, sia detto incidentalmente,  è il nome dell’ufficiale che,il 30 Aprile del 1863, cadde alla testa di un reparto di sessantadue legionari  in Messico a Camerone (in originale: Camarón de Tejada), combattendo contro duemila soldati messicani che concessero l’onore delle armi ai sei sopravvissuti. Da allora il 30 Aprile è la festa della Legione: si dice infatti “Fêter Camerone” e durante la cerimonia la mano di legno del Capitano Danjou è portata in processione da una persona di particolare rilievo, chiamato, in quell'occasione “porteur de la main”. Fra quei vecchi legionari di Puyloubier Rossif ne trovò uno che infrangendo un impegno solenne gli raccontò quella che doveva essere la vera storia dell’impegno del I Cavalleria della Legione ("le premier éntrangér de Cavalerie", come dice l'inno del reggimento stesso) nella parte finale della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1944 sbarcò in Provenza e, come si è detto, terminò la guerra giunto nel cuore stesso della Germania. Ma secondo il vecchio legionario contribuì in modo decisivo a liberare il sud della Francia prima di proseguire la marcia verso la patria del nemico. Questa liberazione sarebbe avvenuta grazie ai saggi consigli di Bottai, vecchio combattente di due guerre, secondo modalità che il libro illustra ampiamente. Ma non se n’è mai parlato per non dover ammettere che erano stati dei soldati (in prevalenza) stranieri e non francesi ad assicurare la liberazione di un’ampia parte della Francia.
Questa è dunque la tesi del libro di Enzo, illustrata grazie alla sua amicizia con Frédéric Rossif (1922-1990) un curioso personaggio del cinema che ebbe più di un momento di notevole notorietà in qualità di autore di documentari e antologie storiche (“Mourir à Madrid”, “Le temps du ghetto”, sono tra le opere più famose). Francesizzato nella vita e nel lavoro Rossif era, in realtà, nato a Cettigne in Montenegro ed era parente della Regina Elena. Venuto a Roma per studiare matematica, all'età di 19 anni decise di partecipare alla guerra, riuscì ad arrivare ad Alessandria e poi ad arruolarsi nella Legione Straniera. Tornò in Italia e conobbe nuove esperienze belliche. Nel dopoguerra, ormai noto documentarista, Rossif (che con facilità slava parlava ancora l’italiano) venne a Roma per cercarvi occasioni di lavoro nell’allestimento dei documentari di alto livello in cui si era specializzato. Ognuno per conto proprio sia Enzo Natta che io lo abbiamo conosciuto e frequentato: Rossif veniva spesso alla Rai in Viale Mazzini, in quelle occasioni passava a trovarmi nel mio ufficio: la sua conversazione era ricca di dati e misteriosa su molti frammenti del suo passato, ma di largo interesse umano e storico. Mi ricordo che mi ripeté spesso che il suo ingaggio nella Legione Straniera sfuggiva ai criteri abituali ed era uno di quelli determinato dallo stato guerra mondiale e dal desiderio di arruolare legionari mossi da motivi politici e di ideali e non dall’abituale desiderio di cambiare nome e vita che è sempre stato tipico del legionario medio. Rossif mi ripeté spesso che il suo contratto prevedeva un ingaggio sino alla fine della guerra più sei mesi. Quello di Bottai durò complessivamente quattro anni.

Terzo personaggio del libro è quell’ interessante personaggio del nostro cinema post-bellico che fu Folco Lulli (1912-1970). Molti lo ricordano come caratterista di peso in molti film italiani del dopoguerra via via sino agli ultimi anni ’60: una settantina di titoli spesso con registi di primo ordine. Fra di essi Lattuada, Camerini, Soldati (“Fuga in Francia” che Lulli, secondo Enzo,  sosteneva esser stato girato per intero da Pietro Germi, perché Soldati era malato), Malasomma, Steno e Monicelli, Fellini, Matarazzo, Blasetti, Clouzot, Carné, Coletti, eccetera. Dal libro di Natta scopriamo tutto un risvolto “storico” di Lulli che non sospettavamo. Nel 1943, quasi subito dopo l’8 Settembre, divenne partigiano in Piemonte e prestò servizio in quelle Brigate Autonome, che spesso erano monarchiche e venivano chiamati (dai fascisti ed anche dai “garibaldini”) i “badogliani”. Folco Lulli fu con il Maggior degli Alpini Martini detto Mauri: era a capo di forti formazioni partigiane nelle Langhe e sotto di lui militò Beppe Fenoglio (l’autore de “I ventitré giorni della città di Alba” e “Il partigiano Johnny”) che descrisse Mauri chiamandolo “il Comandante Lampus”. Catturato dai tedeschi Lulli si trovò, come uomo di fiducia di Mauri, al centro di un sottile rapporto di penetrazione nelle file dello spionaggio nazista, che vi lascio scoprire nel libro di Enzo Natta, per non svelare proprio tutti i segreti dell’opera.

Un’opera da raccomandare ai lettori interessati ai problemi della storia della Seconda Guerra Mondiale, in particolare di quella partigiana e italiana e dal tocco romanzesco che finisce sempre con l’unire (ma anche col dividere) la “storia nella storia” e la “storia nel cinema”.
http://clandestinoingalleria.blogspot.it/2013/07/bottai-rossif-e-lulli-fra-la-storia.html

venerdì 5 luglio 2013

LA NASCOSTA NOBILTA’ DEI RIBELLI ROMANTICI - di Piero Vassallo

Storie di uomini contro

di Piero Vassallo



lbDi professione critico cinematografico, di vocazione raffinato romanziere e sagace esploratore di storie dimenticate e/o censurate, l'imperiese Enzo Natta appartiene all'aristocrazia degli studiosi sgraditi ai severi vigilanti sulla addomesticata memoria storica.
Nel libro "Ombre sul sole", pubblicato dalla casa editriceTabula Fati, attiva nella irriducibile Chieti dei Solfanelli, Natta propone tre profili di personaggi in disordine sfacciato davanti all'intoccabile vulgata: Giuseppe Bottai, Folco Lulli e Frédéric Rossif.

Giuseppe Bottai, geniale magister nella Normale di Pisa, autore di una riforma scolastica che allontanò l'ombra del neo idealismo dalla scuola italiana, fondatore e animatore delle ruggenti riviste Primato Abc,ultimamente pensatore del quale la destra italiana fu orfana disgraziata, fino all'allestimento della comica finale a Montecarlo e il successivo rovescio nel Nulla.
Co-redattore dell'ordine del giorno di Dino Grandi, che nella notte fra il 24 e il 25 luglio del 1943, provocò la caduta del regime fascista  e condannato a morte dal tribunale speciale di Verona nel gennaio del 1944, Bottai sfuggì alla polizia tedesca grazie all'accoglienza in istituti religiosi romani, allertati tempestivamente dal cardinale Giuseppe Pizzardo e da monsignor Giovanni Battista Montini.
Con la divisa della Legione straniera, indossata per sfuggire al proprio passato, Bottai, ex ardito nella Grande Guerra, ex colonnello dell'esercito combattente contro la Grecia, nel 1944 fu protagonista di una singolare impresa di guerra in Provenza.
Natta ricostruisce la censurata avventura dell'ex gerarca: "Bottai si arruolò nella Legione a Sidi bel-Abès, in Algeria. Aveva quarantanove anni, già troppi per la Legione. Ne dichiarò quarantaquattro e il furiere commentò: "Come d'abitudine ci si ringiovanisce".
Bottai fu arruolato con il nome di Andrea Battaglia e assegnato alle mitragliatrici piazzate su una rischiosa vettura da ricognizione. I legionari, visto che il nuovo commilitone, teneva nello zaino tre libri lo soprannominato le professeur.
Nel settembre del 1944 il legionario/professeur Andrea Battaglia partecipò allo sbarco dei francesi in Provenza. I demotivati territoriali tedeschi opposero una debole resistenza. Di conseguenza l'Alto Comando francese decise di agire in profondità mediante incursioni delle veloci pattuglie motorizzate. L'incarico esplorativo fu affidato a un commando di quaranta legionari. Il sedicente Battaglia faceva parte del gruppo.
Il comandante della missione, incerto sul da fare, consultò Battaglia, che gli suggerì una efficace tattica. In esecuzione della tattica dettata dal professuer "il commando avanza senza difficoltà, penetrando sempre più in profondità nel cuore del territorio occupato dal nemico e liberando un paese dopo l'altro".
Se non che lo straordinario successo ottenuto da quaranta legionari istruiti da un ex gerarca fascista turbò l'Alto Comando francese. Di conseguenza fu emanato l'ordine di cessare l'avanzata legionaria. Bottai allora suggerì di continuare l'avanzata e di fingere la mancata recezione degli ordini lanciati dalla radio del Comando.
Imposto da gelosia, superbia e orgoglio frustrato, il segreto sul successo dei legionari fu rotto da un commilitone di Bottai che si confessò a Frédéric Rossif e attraverso lui a Enzo Natta.

Prima di diventare attore famoso, eroe contro fu anche il fiorentino Folco Lulli. Reduce dalla guerra d'Etiopia e deluso dall'inefficienza dell'esercito italiano, dopo l'otto settembre del 1943 si arruolò, a dispetto della sua contraria fede politica, in una formazione partigiana costituita da monarchici.
Lulli fu amico di Enzo Natta, il quale raccolse le sue straordinarie memorie. Esemplare la sua fuga da un campo di concentramento tedesco, un episodio rievocato dal suo biografo: "A ridosso delle prime linee, il campo di lavoro in cui si trovava Folco Lulli avvertiva sempre più vicina la presenza dei russi. Fu così che nella notte del Natale del 1944, approfittando del momentaneo calo di sorveglianza il futuro attore riuscì ad eclissarsi assieme a un centinaio di compagni di sventura e a dirigersi verso le linee sovietiche. Affondando nella neve, con un vento gelido che tagliava la faccia, Folco Lulli percorse chilometri e chilometri portando sulle spalle un compagno di prigionia che aveva perso i sensi".
Raggiunta la linea sovietica Lulli riuscì a convincere gli ufficiali dell'Armata rossa che lo arruolarono insieme con gli altri prigionieri italiani, che, per salvarsi, avevano inventato una conveniente adesione all'ideologia comunista. La bravura di Lulli fu tale che alla fine della guerra fu congedato con il grado di generale dell'Armata rossa.

Fréderic Rossif, nipote della Regina Elena, la moglie di Vittorio Emanuele III, fu combattente nella Legione straniera prima che raffinato regista cinematografico e televisivo.
Enzo Natta lo conobbe nella primavere del 1987, durante le riprese di un documentario girato per conto della Rai e dell'Istituto Luce e dedicato al pittore bolognese Giorgio Morandi: "Le cose con il documentario su Morandi andavano per le lunghe e fu allora che per riempire tempi vuoti feci una luna lunga intervista a Rossif".
Natta conobbe in quella occasione una vicenda segreta della seconda guerra mondiale: l'azione di un commando legionario (del quale faceva parte Rossif) che spianò la strada agli alleati neutralizzando il treno sul quale i tedeschi avevano impiantato un micidiale cannone. L'impresa  straordinaria sventò il piano tedesco inteso alla cattura di Pio XII, ma non fu registrata dagli storici.

La complessa storia della seconda guerra mondiale è in qualche misura oscurata dalla censura dei vincitori e dalle interpretazioni degli storici conformisti. Le vicende svelate dall'ironico revisionismo di Enzo Natta attraverso un viaggio nei paradossi delle scelte di campo, costituiscono un opportuno incentivo e un interessante contributo alla curiosità dei lettori refrattari alla storiografia contemplante una sola indefettibile risma di credenti, di eroi, di buoni, di vincitori e di onesti.

sabato 22 giugno 2013

OMBRE SUL SOLE (UOMINI 'CONTRO' IN UN RECENTE LIBRO DI ENZO NATTA) DI ENNIO DE ROBERTIS

Colloqui di lavoro

OMBRE SUL SOLE
Ombre sul sole


Storie di uomini contro, in un recente libro di Enzo Natta

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Che cosa possono avere in comune persone tanto diverse come Giuseppe Bottai, Frédéric Rossif e Folco Lulli? Quale denominatore salda fra loro queste tre “vite parallele” collegando strettamente episodi pressoché sconosciuti che hanno trasformato le loro esistenze in esperienze avventurose sulle quali hanno sempre mantenuto un ostinato quanto scruopoloso riserbo?
Giuseppe Bottai fu ministro delle corporazioni ai tempi del fascismo, elaborò la Carta del lavoro, base dell'ordinamento corporativo, e in seguito, come ministro dell'Educazione Nazionale, si fece promotore di una riforma scolastica che prevedeva fra l'altro l'insegnamento del cinema nelle scuole di ogni ordione e grado. In seguito al voto contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo tenutasi la notte del 25 luglio 1943 fu condannato a morte in contumacia nel processo di Verona. Fuggito in Algeria si arruolò nella Legione Straniera e partecipò allo sbarco in Provenza nell'estate 1944 assumendo un ruolo di primaria importanza nello svolgimento delle operazioni.
Frédéric Rossif, documentarista e regista francese, ha realizzato film di montaggio su momenti e nodi decisivi della storia contemporanea come Vincitori alla sbarra, Morire a Madrid e La rivoluzione d'ottobre. In televisione ha firmato serie di successo come Gli animali e L'opera selvaggia. Di origine montenegrina, era il nipote della regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III, e nel 1940, allora diciottenne, si trovava a Roma, dove frequentava la facoltà di matematica. Quando le truppe dell'Asse invasero la Jugoslavia, fuggì dall'Italia, raggiunse in modo avventuroso la Siria, dove le forze francesi erano rimaste fedeli al  governo del generale De Gaulle, e si arruolò nella Legione Straniera. Aggregato al corpo di spedizione francese in Italia, alla fine del maggio 1944 prese parte a un audace colpo di mano che permise agli Alleati di liberare Roma, scongiurando nello stesso tempo il rapimento di Pio XII da parte dei nazisti.
Folco Lulli, debuttò come attore nel film Il bandito (1946) di Alberto Lattuada rivelandosi subito interprete dotato di intensa capacità comunicativa e di rilevante efficacia drammatica. Dopo aver preso parte alla campagna d'Etiopia era stato richiamato e nel settembre del 1943 si trovava ricoverato all'Ospedale militare di Torino per cause di servizio. E' in quell'ambiente che incontrò alcuni militanti di “Giustizia e Libertà”, una frequentazione che contribuì ad accrescere in lui la crisi nutrita nei confronti del fascismo, dell'alleanza con la Germania, della guerra. Sorpreso dall'armistizio, era riuscito a raggiungere il Basso Piemonte, dove si era aggregato alle formazioni partigiane di Martini Mauri, operative nella zona delle Alpi Marittime.
Che cosa hanno in comune Giuseppe Bottai, Frédéric Rossif e Folco Lulli? Li accomunano le loro storie rubate, mai raccontate perché scomode e tenute sottochiave a vario titolo. Li accomunano il silenzio con cui hanno protetto il proprio vissuto negli anni della Seconda guerra mondiale, il passaggio sotto altre bandiere (Bottai e Rossif militarono nella Legione Straniera) e l'adozione di una diversa identità (tutti e tre cambiarono nome, Lulli assunse il nome di battaglia di Farfalla e, mazziniano convinto, mutò momentaneamente casacca aggregandosi a una banda partigiana monarchica). Li accomuna il trauma che li spinse a chiudere alle loro spalle la porta di un passato che se da una parte avrebbe potuto dispensar loro encomi a privilegi, dall'altro evocava lutti e orrori. Un passato che era meglio dimenticare e che li ha resi prigionieri di un volontario silenzio nel quale si erano ermeticamente chiusi.
Bottai, Lulli e Rossif sono i protagonisti di Ombre sul sole – Storie di uomini-contro (Tabula fati. Chieti, 2013. € 11,00), romanzo-saggio che Enzo Natta ha ricostruito tassello dopo tassello e poi raccontato in questa non-fiction novel dove storia, cronaca e racconto epico si intrecciano di continuo.
Ne parliamo con Enzo Natta (nella foto a destra) cominciando dal significato del  titolo.
“Bottai, Rossif e Lulli sono le “ombre sul sole” mitizzate dai poemi epici  giapponesi, macchie che hanno oscurato la “chanson de geste” dei  “ronin”, samurai disillusi e senza padroni che hanno scontato gli errori altrui riscattando colpe collettive e sacrificandosi nell'anonimato di un eroismo mai celebrato dall'epica, che si sono sacrificati riscattando attraverso una tardiva ma salutare presa di coscienza non solo l'ambiguità dei loro trascorsi, ma anche gli inganni subiti e gli altrui tradimenti. Miti rubati, eroi dimenticati, memorie perdute di uomini esiliati dalla Storia. Per calcolo politico, per scelta propria. Ombre sul sole, uomini senza identità, macchie che offuscano la verità e che suscitano lo sdegno della coscienza civile, offesa da reiterati silenzi.
Giuseppe Bottai, Frédéric Rossif e Folco Lulli sono antagonisti, uomini-contro che si sono ribellati al padre. Bottai a Mussolini, Rossif alla zia Elena diventata regina d'Italia, Lulli a un'identità perduta dopo aver preso  parte alla campagna d'Etiopia e aver smarrito quelle certezze che l'avevano spinto a partecipare all'avventura africana in cui visse quella metamorfosi che Ennio Flaiano racconta in Tempo di uccidere.”
Com'è nato questo libro? -
“Tutto è cominciato grazie a Frédéric Rossif. L'avevo conosciuto nella tarda primavera del 1987. Il regista franco-montenegrino era arrivato a Cinecittà per Morandi, uno special di 52 minuti sul pittore bolognese realizzato per conto della Rai e dell'Istituto Luce. Un ritorno al vecchio amore per la pittura, ai famosi cortometraggi su Picasso, Matisse, Cocteau e Chagall che gli avevano aperto le porte del cinema.
Rossif considerava Morandi il più grande pittore italiano moderno, “il solo che non dipinge argomenti, ma fa della pittura pura, come Braque”, e lo paragonava a Leopardi per lo stesso sentimento di tragedia umana e la stessa densità di creazione. Una passione, quella di Rossif per la pittura, e lo stesso amore per Morandi, riscontrabili, fra gli uomini di cinema, soltanto in Valerio Zurlini.
Il presidente dell'Ente Cinema, la holding del gruppo cinematografico pubblico, era allora un ex sindacalista, molto pragmatico, romanaccio che andava per le spicce e che disdegnava ogni formalità burocratica.
“Staje appresso” mi disse. Niente di più. Due parole che bastavano a condensare più mansioni: delegato alla produzione, controllore, assistente, accompagnatore, uomo di fiducia, responsabile degli ulteriori sviluppi. Nel rispetto di una tradizione millenaria che in un gesto del Sommo Pontefice diceva più di cento parole: “Ad nutum Summi Pontificis”. Bastava un cenno e la volontà superiore si esprimeva attraverso l'equivalente di un'investitura.
Dell'intera opera di Rossif Morire a Madrid restava di gran lunga il prodotto da me preferito. Motivi sentimentali, indubbiamente, che non tenevano conto delle critiche mosse a quel film di montaggio, accusato di riassumere schematicamente la guerra civile spagnola nell'antinomia fascismo-antifascismo e di sorvolare invece sulla complessa dialettica politica, sociale, militare in cui si articolava il fronte repubblicano. Tutte questioni che si legavano al ricordo di mio nonno, lupo di mare, giramondo, cacciatore di tesori, libertario, che a settant'anni compiuti raggiunse in Spagna i suoi compagni anarchici e che rischiò di finire ammazzato dagli stalinisti dopo gli scontri di Barcellona del maggio 1937 assieme al suo amico George Orwell.
Storie raccontate nel Graffio della regina e che ora non è il caso di ripetere. Ricordo soltanto che quando per puro caso ne accennai a Rossif i nostri rapporti cambiarono e da formali diventarono  via via confidenziali. La comune passione per la Storia aveva spazzato via ogni riserbo.
Il ghiaccio si ruppe proprio con la guerra di Spagna. Rossif ammise che effettivamente in Morire a Madrid la parte carente era proprio quella relativa alla divisione delle sinistre, al contrasto fra anarchici e trotzkisti da una parte e stalinisti dall'altra, sacrificata nella durata di 85 minuti al tono epico e lirico che faceva da supporto alla rievocazione di quell'evento storico.”Se dovessi rifarlo oggi,” mi disse allora “lo rifarei con un altro taglio, meno celebrativo e più critico dal punto di vista storico”.
Le cose con il documentario su Morandi andavano per le lunghe e fu allora che per riempire tempi vuoti feci una lunga intervista a Rossif per “Immagine & Pubbico”, la rivista dell'Ente Cinema, apparsa poi sul numero 4 del 1987. In quell'intervista Rossif parlò fra l'altro della sua partecipazione alla campagna d'Italia nel corso della Seconda guerra mondiale. Inquadrato nei corpi speciali della Legione Straniera impegnati sul fronte di Cassino sotto il comando del generale Alphonse Juin, Rossif visse inizialmente una snervante guerra di posizione che aveva inchiodato gli Alleati.
Nonostante intensi bombardamenti a tappeto, gli Alleati non riuscivano a rendere inoffensivo il fuoco d'artiglieria tedesco a causa di un cannone a lunga gittata montato su binari ferroviari che gli consentivano di rientrare in una galleria nei pressi di Velletri e di sottrarsi in tal modo all'offensiva aerea. Per eliminare l'inconveniente che sbarrava la strada per Roma, gli Alleati decisero un colpo di mano con un'azione di commandos. Il compito toccò a una pattuglia della Legione Straniera di cui faceva parte lo stesso Rossif.
L'operazione fu coronata da successo e gli Alleati trovarono spianata la la via per Roma. Fortunatamente per Rossif, che era stato catturato e rinchiuso nella famigerata prigione di via Tasso.
Rossif non parlava volentieri di quell'esperienza, ma poco alla volta si lasciò andare a confidenze. Al punto che si cominciò ad accarezzare l'idea di realizzare un film di montaggio su quell'episodio, originato dal tentativo di sventare il rapimento di Pio XII da parte dei nazisti.”
Un progetto che se ne è portato appresso un altro, vale a dire quello su Bottai. -
“L'operazione per far fallire il rapimento di Pio XII, allora secretata dagli Alleati e rimasta tale, ne richiamò subito un'altra (e qui entra in ballo Bottai) di cui nella Legione si parlava diffusamente e che Rossif era riuscito a portare alla luce andando a scovare l'ultimo sopravvissuto in una casa di riposo per vecchi legionari in Provenza.
Dato che su quest'ultima operazione militare che portò alla liberazione della Provenza e della Costa Azzurra non esisteva alcun materiale filmato, Rossif aveva  pensato a una fiction. Fu così che cominciò il nostro lavoro. Che non era un lavoro ma un divertissement. Rossif lo chiamava un bricolage, fatto quasi per scherzo e per ingannare il tempo. Rossif parlava, con tale precisione e lucidità che gli appunti si traducevano ipso facto in un testo. Lui lo rivedeva apportando soltanto qualche lieve correzione. Fu così anche per la fiction su Bottai, un'esperienza che lo divertì moltissimo perché si trattava di conferire una veste romanzesca a un fatto storico quasi del tutto ignorato. “Ti è venuta qualche idea?” mi chiedeva. “Mettila dentro e non aver paura di esagerare. Gli americani non si preoccupano di spararle grosse e sfidare l'inverosimile. Per questo i loro film hanno successo.”
Sul progetto di fiction, per il quale Rossif  suggerì il titolo Nuit sur la victoire (“Buio sulla vittoria”), iniziammo anche a far qualche prova su una “story-board”. Ai corsi di filmologia organizzati dai circoli del cinema dell'Ancci (Associazione nazionale circoli cinematografici italiani) avevo conosciuto Luca Bosio, un giovane architetto prematuramente scomparso, che disegnava molto bene e lo convinsi a buttar giù un po' di idee. Luca sfornò alcune tavole che incontrarono l'approvazione di Rossif. “Benissimo” commentò. E subito dopo aggiunse ridendo: “Se non riusciremo a realizzare la fiction avremo pur sempre ottimo materiale per un fumetto.”
- E Folco Lulli come si è aggiunto a Bottai e Rossif? -
Tutt'altra storia. L'iniziativa per ricordare il centenario della nascita di Folco Lulli era partita da Romano Milani, segretario generale  del Sindacato nazionale giornalisti cinematografici. Accettai di entrare a far parte dell'iniziativa a patto di limitarmi a raccontare l'esperienza del Lulli partigiano. Lo avevo intervistato all'inizio del 1970 per “Il Giornale d'Italia” quando stava per  iniziare le riprese di Le stelle cadono d'estate, film nel quale voleva raccontare un episodio connesso a quell'esperienza. L'anno prima aveva diretto Gente d'onore debuttando nel lungometraggio a soggetto e a quel punto intendeva ripetersi con un soggetto autobiografico.
Sull'avventura di Folco Lulli negli anni della Resistenza disponevo di pochissimi elementi, ma per fortuna i figli mi avevano consegnato alcune lettere di ex commilitoni che avevano combattuto al suo fianco. Tutti residenti in Piemonte, a Mondovì. Andai a cercarli, ma trovai soltanto delle vedove. Di buona memoria, per fortuna, e tanta voglia di chiacchierare. Dai loro racconti è scaturita una storia che ha dell'incredibile e che se non fosse stata verificata sino in fondo ancora adesso potrebbe sembrare sbalorditiva.“
- Gente d'onore è stata l'unica regia di Folco Lulli. E Lulli era uomo d'onore fino in fondo. Lo dimostra la disputa sulla regia diFuga in Francia, da Lulli attribuita a Pietro Germi. Non è vero? -
“Verissimo! A inizio riprese Mario Soldati si ammalò e Germi, che aveva già due regie alle spalle, oltre che recitare si mise anche a dirigere. Voi giornalisti, voi critici dovete dirlo, si raccomamdò Lulli dopo avermi raccontato come andarono le cose. Ottemperare a questo desiderio mi è sembrao il miglior modo per rispettare quelle ultime volontà.”

sabato 25 agosto 2012

AMORE E ODIO


La Juventus è la società calcistica di cui, nel bene e nel male, si parla di più in Italia. Per lei da sempre si è spesa, per esaltarla o irriderla, l’attribuzione antropomorfica di un’identità umana speciale, quella di una signora bellissima e distinta che incute intorno a sé rispetto, di una dama di nobile lignaggio dai modi naturalmente signorili e pacati, ma irresistibilmente determinati.
La Vecchia Signora, questo il suo appellativo più ricorrente, è un’amante raffinata ed esigente. Di lei che a noi bianconeri suscita una passione esclusiva e irrefrenabile siamo pazzamente innamorati e gelosi. Ma quel sentimento diventa un’ossessione da rimuovere con ogni mezzo per chi non riesca a possederla o si senta da lei ignorato ed escluso. Lei non si lascia sedurre dalle avances grossolane e mercantili di popolani arricchiti, corteggiata com’è sotto ogni latitudine da sempre nuove folle d’innamorati adoranti.
Purtroppo, come il mondo della comunicazione esige per ogni star internazionale, parlare di lei, non importa se per incensarla o denigrarla, è sempre un evento che arricchisce in notorietà, soldi e audience i primattori e le comparse della prostituzione mediatica.
Esente dal becero provincialismo delle faziosità di campanile che caratterizzano la parte più rozza del mondo del calcio, la Signoraè continuamente oggetto di opposte attenzioni, di sentimenti forti e conflittuali, ora amorevolmente carezzevoli ora perfidamente graffianti, in ogni caso mai espressioni di noncuranza e impassibilità.
Nei suoi colori sociali c’è posto solo per il bianco e il nero, non per il grigio, colore spesso preferito invece dal popolino che, rintanato nell’ombra anonima del suo loggione, osa lanciare lazzi e sguaiataggini all’indirizzo del suo palco regale, insinuare gratuite maldicenze contro di lei e attentare impunemente al suo onore.
Senza dubbio nel determinare la sua diversità di classe e di ceto hanno un peso decisivo gli annali dorati della sua gloriosa storia ultracentenaria, la cavalcata trionfale dei suoi trenta scudetti, la sua perenne fame di vittorie, la regale signorilità e inesausta passione con cui un’invidiata dinastia familiare, irripetibile in Italia e nel mondo, l’ha allevata, educata e custodita.
Da non sottovalutare poi l’aristocrazia dei suoi natali.
Le sue avversarie e consorelle dello sport pallonaro sono nate popolane, chi tra i fumi di un’osteria, chi tra il vociare indistinto di un oratorio polveroso, chi tra gli schizzi delle pozzanghere di un campetto di periferia, nel migliore dei casi alla scrivania di un megalomane “padrone del vapore”.
Lei è nata, non per caso, per iniziativa di un gruppo di studenti liceali riuniti in elegante consesso su una panchina del corso più aristocratico della “regal Torino”, l’ex capitale d’Italia. E non è differenza da poco.
Forse, però, neanche questo DNA pur socialmente discriminatorio basta a spiegare la genesi di sentimenti in così lacerante contrapposizione fra loro.
Il vero segreto di quest’enigma di consenso e rancore, di passione e malevolenza, di amore e odio si annida più in profondità, addirittura e inaspettatamente nel carico di splendore e responsabilità del suo nome, Gioventù.
E’ un nome speciale, presagio di significato e di senso assai impegnativi, capace di evocare l’audacia, il fascino, la bellezza, la leggenda della giovinezza, il mito che da sempre ha accompagnato l’uomo di ogni cultura nella sua esplosiva avventura adolescenziale, il tesoro affannosamente cercato in ogni tempo e in ogni contrada, l’inafferrabile fonte di gioia e sogno d’immortalità. Un intenso squarcio di vita troppo bello per essere odiato, ma troppo breve e sfuggente per essere a lungo amato senza nostalgia e risentimenti feroci.
Da una parte il tempo della giovinezza permette a chi lo vive di sognare, di staccarsi con spensieratezza dalla realtà, di gustare l’illusione di una vittoria senza fine sul tempo e sulle cose.
Dall’altra il mito della gioventù sfiorita, il passato povero ormai scivolato fra le dita solo come sabbia di una clessidra troppo frettolosa che va svuotandosi di grani, può ingenerare in chi lo ha perduto un bisogno di rivalsa, di vendetta, di odio.
Ritorna l’irrisolto conflitto esistenziale, fra il sogno di giovinezza e l’inesorabile acida resa alla vecchiaia, fra la perdurante voglia giovanile di vita di chi ama la giovinezza e l’angosciante struggimento di rivincita di chi invece la odia, come memoria da rimuovere di un bene a suo tempo scialato e ormai irrimediabilmente perduto.
Cara, impareggiabile Signora Gioventù, a te la passione e il delirante abbraccio di milioni di innamorati. A loro, i tuoi arcigni e frustrati detrattori, il macigno divorante dell’invidia e il lettino dello psicanalista.

Umberto Tozzini

martedì 8 maggio 2012

Presentazione al Salone del Libro di Torino (Domenica 13 Maggio 2012)

Domenica 13 maggio 2012

ore 19:30 - 20:00

LUIGI TENCO. Storia di un omicidio
di Nicola Guarneri e Pasquale Ragone

Edizioni Tabula fati


Lingotto Fiere - Padiglione 3 -  Stand  R 38 – S 41  



venerdì 27 gennaio 2012

Il "giallo" Tenco. Un libro svela l'ultima verità (www.lastampa.it)





Quarantacinque anni di misteri

"Non fu Dalida a scoprire per prima il corpo senza vita di Luigi Tenco nella sua stanza all'hotel Savoy di Sanremo, ma Lucio Dalla". E' la tesi contenuta nel libro "Luigi Tenco, storia di un omicidio" di Nicola Guarneri e Pasquale Ragone. Nel 45esimo anniversario della morte del cantante, gli autori del volume ne ripercorrono le ultime ore di vita ed escludono che Tenco possa essersi suicidato. A Ricaldone, comune dell'alessandrino dove l'artista è sepolto, preferiscono ricordarlo con le sue canzoni. "Non ci appassionano - afferma il sindaco - i retroscena sulla sua fine".

Servizio di Francesco Gilioli e Giorgio Ragnoli

http://multimedia.lastampa.it/multimedia/in-italia/lstp/113637/

Sono passati 45 anni dalla morte di Luigi Tenco (27 gennaio 1967)

Poche vicende hanno simmetricamente diviso l’Italia per così tanto tempo come la tragica fine del cantautore genovese Luigi Tenco. L’annosa dicotomia tra omicidio e suicidio, emersa fin dalle prime ore di quella notte del gennaio 1967, sembra ancora lontana da una soluzione certa. A tal proposito, tra le opere che hanno fatto più discutere c’è un libro, pubblicato dalla casa editrice Tabula Fati nel luglio 2011, che già dal titolo toglie ogni dubbio: “Luigi Tenco. Storia di un omicidio”.

Gli autori. Pasquale Ragone e Nicola Guarneri sono i due giornalisti che si sono lanciati in questa complicata vicenda. I due autori (criminologo il primo, scrittore d’Inchiesta il secondo) hanno scritto un libro a 360 gradi, il primo che tratta unicamente la morte del cantautore genovese. Questi self-made-journalist hanno svolto un lavoro certosino, basato su innumerevoli interviste (la maggior parte inedite) che mantengono uno stile assolutamente colloquiale, utile a far rivivere al lettore le esperienze e i particolari che spesso gli intervistati ripescano dal passato. Gli stralci di queste interviste, riportate interamente in fondo al libro, e un’accurata analisi storico-politica del periodo vanno a formare le due parti in cui si divide l’opera: nella prima si esaminano i motivi che avrebbero portato all’omicidio di Tenco, mentre nella seconda vengono raccolte tutte le prove scientifiche a supporto della tesi omicidiaria, compresa una dettagliata ricostruzione della serata sanremese.

I motivi dell’omicidio. I due autori fondano questa parte del libro sull’intervista a Giovanni Di Stefano, un avvocato di fama mondiale noto ai più per aver difeso nei rispettivi processi il leader serbo Slobodan Milosevic e il dittatore iracheno Saddam Hussein. Di Stefano racconta di un colloquio privato con Mario Moretti, il brigatista che uccise Aldo Moro, nel quale sarebbe venuto a conoscenza del ruolo di Tenco in un tentato golpe in Argentina per spodestare l’allora presidente Arturo Illia. Tenco, che in quanto cantautore era in grado di oltrepassare i confini internazionali senza destare sospetti, sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti come informatore. A supporto di tale teoria ci sarebbe anche una dispensa speciale firmata dal Presidente della Repubblica in persona, Giuseppe Saragat, per permettere a Tenco di espatriare nonostante fosse impegnato nel servizio di leva. Guarneri e Ragone setacciano ogni archivio in cerca di prove che confermino la tesi dell’avvocato, come ogni giornalista dovrebbe fare con le proprie fonti. La sensazione, per chi legge, è che effettivamente Tenco sia stato invischiato in un gioco più grande di lui; una volta realizzato il proprio ruolo nella vicenda il cantautore si sarebbe convinto a sporgere una denuncia, motivo per cui sarebbe stato tolto di mezzo.

Le prove scientifiche. Nella seconda parte del libro gli autori si concentrano sulle prove scientifiche, riportando interviste di esperti dei settori più disparati (dalla balistica alla calligrafia). Nonostante le controverse conclusioni a cui giunsero i magistrati in seguito alla riapertura del caso (con la conseguente autopsia) avvenuta nel 2006, sono molti i punti che non quadrerebbero con la tesi suicidiaria, dalla mancanza del segno di Felc alla negatività della prova dello Stub. Particolare attenzione va all’analisi del bossolo: secondo il professor Farneti, autorevole docente di balistica, i segni presenti sullo stesso sarebbero sintomatici dell’uso di un silenziatore, prova inequivocabile che si trattò di un omicidio.

Conclusioni. Il lavoro appare assolutamente esaustivo e convincente. D’altronde sono gli stessi due autori che attraverso le novità descritte nel libro, come la scoperta di alcune fratture ante-mortem sul corpo di Tenco, le analisi balistiche e quelle medico-legali chiederanno la riapertura del caso per omicidio a carico di ignoti. Per mettere la parola fine ad una vicenda che sta per compiere 45 anni.

lunedì 23 gennaio 2012

Ricordando Luigi Tenco: La vita, la musica e la morte fra misteri e arte

Il 27 gennaio 2012 saranno passati 45 anni dalla morte di Luigi Tenco. Poche vicende hanno simmetricamente diviso l’Italia per così tanto tempo come la tragica fine del cantautore genovese. L’annosa dicotomia tra omicidio e suicidio, emersa fin dalle prime ore di quella notte del gennaio 1967, sembra ancora lontana da una soluzione certa. Ma ripercorriamo brevemente la storia di questo ragazzo morto prematuramente all’età di 29 anni.
Luigi Tenco nasce a Cassine (Alessandria) il 21 marzo 1938. La passione per la musica è evidente fin da piccolo: a soli 15 anni fonda il suo primo gruppo, la Jelly Roll Boys Jazz band. A 19 anni entra nel Trio Garibaldi e la voglia di sperimentare nuovi strumenti ne perfeziona la tecnica. Sono i primi passi nel mondo della musica, la stessa che sarebbe diventata da lì a qualche tempo la vera passione di una vita breve ma intensa. Il talento di Tenco è evidente e la svolta arriva nel 1959: l’amicizia con Gianfranco Reverberi lo porta a trasferirsi a Milano dove ottiene i primi lavori suonando il sax in tutte le incisioni della casa discografica Dischi Ricordi. Arrivano così altri contratti, dapprima con la Jolly e infine con la RCA italiana. Quest’ultima ha grandi progetti per Tenco: nell’estate 1966 gli affianca Dalida, una star internazionale, e nei mesi successivi matura l’obiettivo di vincere il successivo Festival di Sanremo dove la coppia decide di esibirsi con una canzone difficile e diversa dalla tradizione musicale sanremese: “Ciao amore ciao”.
Nel corso di quel maledetto Sanremo, Tenco trova la morte nella sua stanza d’albergo 219 dell’Hotel Savoy, la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967. Da quel momento in poi il confine tra ipotesi e certezze diventa sempre più sottile. Il commissario Molinari, incaricato delle indagini, arriva sulla scena del crimine inviando immediatamente un messaggio all’Ansa asserendo che Tenco si è suicidato: non gli è necessario alcun accertamento per giungere a tale conclusione. Eppure le imprecisioni della Polizia costituiscono il primo vero intralcio alle indagini. I necrofori intervenuti per portare via il corpo di Tenco sono dapprima incaricati di trasportarlo all’obitorio di Valle Armea; arrivati a destinazione si chiede loro di riportare immediatamente il corpo nella stanza 219 poiché la Polizia ha dimenticato di fotografare il cadavere. La scena del crimine viene così ricostruita: il cadavere è posto con i piedi sotto il comò e la pistola sotto le gambe, posizioni alquanto insolite per un suicidio. La domanda che ancora oggi angoscia chi si appresta a leggere del caso è: la ricostruzione è fedele rispetto alla posizione originaria del corpo oppure no? Per questi ed altri motivi un esposto dei giornalisti Buttazzi, Pomati e Colonna, impreziosito di una perizia criminologica del Prof. Bruno, fa sì che il caso sia riaperto nel dicembre 2005. La successiva autopsia avvenuto nel 2006, e mai svolta all’epoca della morte di Tenco, non permette però di chiarire i punti oscuri della vicenda nonostante il corpo riesumato sia in condizioni idonee a svolgere tutti gli accertamenti. Il caso viene quindi nuovamente chiuso nel 2009: secondo la Procura della Repubblica di Sanremo, nulla contraddirebbe l’ipotesi del suicidio.
Le conclusioni della Procura sono però destinate a essere subito contraddette. Nel luglio 2011 la casa editrice Tabula Fati pubblica un libro di Pasquale Ragone (criminologo) e Nicola Guarneri (giornalista d’inchiesta). L’opera, nelle sue 300 pagine, analizza in maniera maniacale ogni aspetto del caso: le analisi balistiche e gli accertamenti medico-legali che escludono l’ipotesi suicidiaria, fino ai motivi che avrebbero portato all’omicidio Tenco attraverso un’accurata analisi storico-politica delle vicende internazionali degli anni ’50-’60.

Il libro, intitolato “Luigi Tenco. Storia di un omicidio”, farà parte di un esposto alla Procura della Repubblica di Sanremo con l’obiettivo di far riaprire il caso per omicidio a carico di ignoti. Per scrivere finalmente la parola fine in una vicenda lunga ormai 45 anni.

Pasquale Ragone