sabato 15 gennaio 2011

"Dipinti sonori" e variazioni su tema (di Lupo Meni)

Chi ancora non avesse letto “Plettri nelle mani di Dio” si potrebbe chiedere: “ma che significato ha l’ennesima biografia sui Beatles?”.
Domanda mal posta perché l’opera di Barghi e Grasso non pretende certo di essere una summa esaustiva dell’arte dei Beatles e, per fortuna, neppure uno stitico bignami ad uso di chi non conosce il quartetto di Liverpool.
Il libro, nell’economia di poco più di 160 pagine, si rivela semmai come un’intelligente e competente riflessione su aspetti probabilmente trascurati dai fan più superficiali, sia dalla critica musicale, la quale, almeno in Italia e nel campo pop-rock, spesso dimostra di non essere tale; ovvero di limitarsi a compitucci di mera cronaca gossippara.
Quindi ben vengano libri come “Plettri nelle mani di Dio”, dove gli autori, che pure non hanno fatto della musica la loro professione ufficiale, hanno dimostrato più capacità e rigore dei cosiddetti professionisti.
La passione di Barghi e Grasso per il quartetto di Liverpool è tale – in questo sta il valore aggiunto del libro – da non far perdere quel senso critico altrove assente.
C’è una pagina che vale l’intero libro, goduriosa per tutti coloro che per anni hanno letto bestialità senza che fosse replicato alcunché.
Leggiamo: “nei primi anni settanta circolavano in Italia alcuni critici (per esempio Bertoncelli) che tacciavano i Beatles di fenomeno puramente commerciale e perbenista, una specie di bibita dolciastra buona solo per generazioni passeggere di teen agers urlanti, oppure (Massarini) che consideravano insostenibile il paragone tra i sorpassati Beatles e i meravigliosi Traffic” (pag. 119).
Soprattutto Massarini “Mister Fantasy” lo conosciamo da tempo, recidivo con giudizi a dir poco avventati (forse molto “fantasy”) nel dissimulare la sua ignoranza e pregiudizio in modernità e capacità critica.
Al di là dei gusti personali era giusto ricordare qualche perla dei nostri cronisti musicali (ecco, una definizione migliore rispetto a “critici”).
Deve comunque essere chiaro che queste digressioni nella polemica, che – ripeto – ritengo anche doverosa, sono solo alcuni degli elementi caratterizzanti il libro di Barghi e Grasso: per il resto, come già rilevato da coloro che hanno letto e commentato “Plettri nelle mani di Dio”, l’opera evita quel rischio sempre presente quando si affrontano in poche pagine i cosiddetti “miti”, ovvero un freddo e sbrigativo riassunto biografico; oppure una semplice e dolciastra sequenza di luoghi comuni.
Di freddezza non c’è alcuna traccia perché, se pure Barghi e Grasso dimostrano di possedere dei validi strumenti critici e conoscenze tali da renderli di altra razza rispetto i normali fans che vivono di sole canzoni, la loro devozione al verbo beatlesiano è evidente.
Come in una religione ci possono essere i mistici e i razionalisti, i due autori mi pare riescano a trovare un virtuoso equilibrio tra entusiasmo “mistico” (si vedano lo stile, le iperboli) e analisi “razionale” (l’aver dato conto dell’impatto dei Beatles nella società e nel mondo musicale).
Proprio perché “Plettri nelle mani di Dio” non è una semplice biografia o stitica sintesi della vita e opere del quartetto, possiamo leggerlo iniziando da qualsiasi capitolo più ispiri al momento.
Il filo logico che tiene insieme le pagine del libro non è tanto quello cronologico, evidentemente non molto importante quando il suo valore aggiunto si scopre essere la notizia poco nota o la riflessione polemica, quanto appunto “l’imprinting musicale e sociale” indotto dai Fab Four: in altri termini la “spigolatura” tra le pagine non farà perdere nulla al lettore che voglia interpretare “Plettri” come un piccolo dizionario ad uso di fan raziocinanti e di mentalità aperta.
Tanti brevi capitoli tematici che giustificano percorsi di lettura diversi e futuri approfondimenti, tra ricordi personali, argomenti noti, meno noti e controversi (Quando erano i Bitols, Cosa resta dei favolosi Sixties, La democrazia dei Beatles, Un’anima di gomma, Quante cose nel 1964-1965, Il fascino discreto del passato, Uomini senza rivalità, Il coraggio del talento, Beatlemania, L’altopiano della musica, Il brutto anatroccolo, Piccoli album crescono, Tutti-per-uno, Meglio tardi che mai, Il basso dei Beatles, Otto anni che cambiarono la musica, Le voci dei Beatles, Two for Us, Te lo giuro sui Beatles, All You Need Is Music, Verità e(è) fatica, Troppo grande per essere vero, Le chitarre dei Beatles, Il ridicolo della serietà, Canzoni di pietra, L’Unione fa l’arte, Per John Winston, Il Mito nell’epoca della sua irriproducibilità, Insegnami la strada, Una e-mail dal cosmo).
Oltre al già ricordato significato dei Fab Four sulla società del tempo, inevitabilmente la maggior parte pagine sono dedicate alla musica in quanto tale, alle chitarre di Lennon, Harrison, al basso di McCartney, alla figura forse sottovalutata (ma non da Barghi e Grasso) di Ringo Starr, all’influenza malefica di Yoko Ono, alla qualità delle diverse voci soliste, alla progressiva e rapida evoluzione artistica dei quattro Beatles. O meglio cinque se vogliamo considerare George Martin che, pur privo di autentica genialità, come loro produttore e grazie alla sua formazione classica, ha saputo supportare e tradurre le idee dei quattro musicisti autodidatti.
Un tema spesso sottovalutato (“ci si scontra con una reciproca ignoranza, con poche eccezioni che confermano la regola generale: i musicisti colti sanno poco dei Beatles e i beatlesiani – non sempre – sanno poco di musica classica”) nei testi scritti dai critici e cronisti di musica rock pop ma che in “Plettri” troviamo esposto, magari più da lato polemico (vengono citati Karlheinz Stockhausen ed altri compositori d’avanguardia come simboli di una musica complessa, cervellotica, lontana dalla loro immediatezza), è proprio quello del rapporto tra i Beatles e la cosiddetta musica “accademica”, dalla loro iniziale repulsione alla scoperta e frequentazione.
Nel libro non vengono citati Leonard Bernstein, loro grande estimatore, ma semmai Berio; e parimenti si ricorda l’interesse di Lennon per Bach, per alcuni contemporanei e poi McCartney con le sue incursioni solistiche nel classico: “la straordinaria attitudine della musica dei Beatles (anche postuma) a farsi erudizzare” (pag. 54).
Potrei continuare a lungo, vista la grande quantità di spunti offerti dai due “dilettanti” Grasso e Barghi, ma mi piace terminare con una frase presente nella premessa e che riassume bene lo spirito “devoto” dei due autori: “Difficilmente il futuro ci riserverà artisti in grado di toccare il cuore della gente, di tutta la gente, come hanno fatto loro”.

Lupo Meni



http://www.ciao.it/Plettri_nelle_mani_di_Dio_The_Beatles_Andrea_Barghi_Maurizio_Grasso__Opinione_1258596

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